Lo scorso sabato alla Talpa e l’orologio abbiamo ospitato Nicoletta Bourbaki che ha presentato La morte, la fanciulla e l’orco rosso, libro che affronta il tema dei presunti «crimini partigiani». Questo genere di storie, spesso risultano del tutto inventate, artefatte.
Il più delle volte sono diffuse decenni dopo la Lotta di Liberazione.
E nel loro rimbalzare vengono arricchite di dettagli splatter e cruenti. Lanciate e condivise in blog fascisti e siti di cronaca locale, queste narrazioni mistificano la storia e hanno la funzione -nemmeno nascosta- di “preparare e assuefare” l’opinione pubblica ad assetti politici, per così dire, nostalgici.
In queste narrazioni, ricche di partigiani bruti stupratori ed assassini, le vite, le storie e i corpi delle “vittime” sono strumentalizzati a sostegno dei piagnistei dei fascisti, tanto di ieri quanto di oggi. La leggenda di Ghersi, tredicenne savonese collaborazionista, è una tra queste.
Abbiamo grandemente apprezzato il lavoro di indagine, ricostruzione e contestualizzazione di Nicoletta Bourbaki, siamo felici di esserci pres* questo spazio di confronto insieme: a imperversare negli anni, non sono state sole le versioni del “mostro rosso”, ma anche quelle del “cattivo partigiano”. Ci teniamo a ribadirlo, se ci risultano odiose le storie sensazionalistiche sui partigiani assassini, altrettanto odiosa ci risulta l’attitudine -squisitamente liberale e interna anche a una certa sinistra- a cospargersi il capo di cenere separando chi la Resistenza l’ha organizzata e combattuta tra «buoni» e «cattivi», azzerando la molteplicità di posizioni che l’hanno animata per potersi assicurare lo spazio celebrativo della ricorrenza istituzionale.
A questo proposito vogliamo ribadire che il fascismo non è spuntato come un fungo che ha imprevedibilmente infettato la società dell’epoca e nemmeno è scomparso all’indomani del 25 aprile. Una parte enorme delle violenze e dei soprusi compiuti durante il ventennio è stata amnistiata rimanendo invendicata: negli anni successivi la stagione della Resistenza i processi hanno punito più partigiani che fascisti i quali hanno continuato a scrivere sui giornali sui quali scrivevano prima, a ricoprire incarichi di potere molto poco dissimili alle cariche che avevano ricoperto durante il ventennio.
Per questo diciamo che il 25 aprile è ogni giorno.
Per questo diciamo che la Resistenza deve essere ora e sempre e per questo vogliamo cogliere ogni occasione – come è stata questa serata insieme a Nicoletta Bourbaki – per trovare “la ragione alla lotta”, per starci dentro, per prendervi parte, senza romanticizzarla, ma guardando invece in ognuno dei suoi aspetti e sfumature, riflettendo su ognuna di queste perché la posta in gioco, lo sappiamo, sono la società e l’avvenire che desideriamo.
Con buona pace di chi la Resistenza ha provato a sterilizzarla, pacificandola e occultando quei partigiani e quelle partigiane troppo ribelli, troppo rossi, troppo donne persino ! ricordiamo che la violenza, l’uso della forza dei gruppi partigiani non è stata la violenza «contraria ma uguale» del regime prima e dell’occupazione poi. Anche leggendo la ricostruzione storica che Nicoletta Bourbaki ci restituisce emerge che sono molte le ragioni per le quali paragonarle è un inganno. Nello spazio di scambio e confronto dello scorso sabato sera abbiamo voluto riflettere su due tra le tante, scegliendo di attualizzare per chiederci conto delle ragioni di noi militanti.
In primo luogo: i gruppi, le bande partigiane erano legate alla comunità.
Dalle comunità locali provenivano e senza l’appoggio e la complicità di queste non sarebbero sopravvissute nemmeno all’inverno. Noi, militanti, siamo capaci oggi di costruire legami di mutualismo e di rinsaldare le relazioni con le comunità che attraversiamo?
Secondo, ma non meno dirimente: le bande partigiane non impugnavano il manico del coltello.
il manico, il potere, lo aveva il regime che aveva fatto – fin dal principio – dell’aggressività e dell’abuso di forza le sue cifre distintive. Saccheggiare, torturare, stuprare, massacrare erano armi di guerra incoraggiate e largamente utilizzate dagli eserciti regolari, non strumenti propri della guerriglia auto organizzata degli oppressi.
A questo proposito noi, militanti, dobbiamo domandarci se stiamo facendo la nostra parte – ognuna e ognuno secondo le proprie possibilità – per organizzare legami di solidarietà tra le persone oppresse qui e in ogni parte del mondo.
La posta in gioco, lo sappiamo, sono la società e l’avvenire che desideriamo e per questa ragione abbiamo scelto la nostra parte.